Intervista per Discorsi Fotografici Magazine / by Filippo Venturi

E’ uscita oggi, su Discorsi Fotografici Magazine, una mia intervista sulla fotografia documentaria e sui miei lavori fotografici, a cura di Mirko Bonfanti :)

L’articolo originale è disponibile al seguente link: La fotografia documentaria di Filippo Venturi

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La fotografia italiana ha sempre avuto una forte caratterizzazione documentaria: pensiamo a personaggi del calibro di Patellani, De Biasi, Dondero, Lucas, solo per citarne alcuni. Questa eredità identitaria viene tuttora rispettata e portata coraggiosamente avanti da una schiera di giovani leve che, spesso e volentieri, ricevono importanti riconoscimenti, più all’estero che in terra natia. Il genere fotografico del reportage soffre da tempo la crisi dell’editoria, inoltre l’elevata concorrenza rende complesso distinguersi ed emergere dalla massa di proposte. Chi ci riesce opera un serio lavoro di pianificazione a tavolino sui temi da affrontare, sulle modalità, sul linguaggio e sullo stile, con impegno e determinazione. E lascia poco margine al caso. Filippo Venturi, cesenate, è un fotografo documentarista che realizza progetti personali che indagano temi quali l’identità e la condizione umana. Collabora con magazine e quotidiani italiani ed esteri, ed ha vinto numerosi premi fra i quali il Sony World Photography Awards, il LensCulture Emerging Talent Awards, il Premio Il Reportage, il Premio Voglino e si è aggiudicato il Portfolio Italia – Gran Premio Hasselblad.

Qual è la tua personale storia della fotografia?
Il mio primo incontro con la fotografia non è stato particolarmente romantico. Mi sarebbe piaciuto che, a introdurmi in questo grande linguaggio, fosse stato un genitore o un nonno, ma in realtà è stata una scoperta solitaria e tardiva. Avevo già 28 anni e una formazione da informatico alle spalle, quando osservando alcuni progetti fotografici online, con un interesse più intenso del solito, è esploso il desiderio di imparare a fotografare. Ho così iniziato a studiare partendo da un corso di Silvia Camporesi (artista visiva oggi molto affermata), che mi è stato utile per approcciarmi all’utilizzo progettuale della fotografia, andando quindi oltre la singola bella immagine. Poi ho approfondito la tecnica e altri aspetti. Dal 2010 ho iniziato a lavorare con questo mezzo ma non ho mai smesso di studiare e osservare i lavori altrui.

Come nasce e quali sono le scintille che alimentano il tuo interesse fotografico verso la documentazione dell’uomo, della sua condizione, della sua identità?
Nei primi anni da fotografo mi è capitato di fare di tutto: fotografo sportivo (che ancora oggi svolgo per alcune società di calcio e rugby), fotografo di scena a teatro (ancora oggi continuo), matrimoni, concerti e altro ancora. È stata una gavetta molto importante perché mi ha permesso di allenare la capacità di adattamento e anche di capire cosa realmente mi interessava. Nel 2012 ho svolto quello che considero il mio primo progetto (In Oblivion, a New York), in cui non mi trovavo a documentare un evento o qualcosa di già programmato, ma ero io a individuare un tema e a cercare di raccogliere materiale per sviluppare quella storia. All’epoca ebbe un buon riscontro, lo considerai un test superato, e questo mi diede la convinzione di continuare su quella strada e cercare di migliorarmi. Continuando con altri lavori di documentazione, ho capito che a me interessano le persone, la loro identità, le loro storie e che quando riesco a ripagare la loro fiducia nell’aprirsi e farsi fotografare, dando visibilità alla problematica in questione, mi sento realizzato.

Quanto è complesso in un mondo concorrenziale come quello di oggi creare progetti vendibili che siano originali e che abbinino una autorialità che emerga dalla massa?
Internet ha rappresentato una grande opportunità per molti lavoratori e, fra questi, anche i fotografi. Io, ad esempio, vivendo in una città di media grandezza, lontana dai grandi centri della fotografia, ho sfruttato quel mezzo per far arrivare i miei lavori in tutto il mondo con pochi click. Ovviamente questa opportunità agevolerà tutti i fotografi, compresi (giustamente) quelli che vivono in paesi dove era ancora più difficile mettersi in luce. In futuro immagino che avremo sempre più grandi fotografi russi, indiani, cinesi, ecc riconosciuti a livello internazionale. A questo punto, quindi, diventa essenziale puntare sulla produzione di lavori di qualità, originali, sensibili e che sappiano anche anticipare i tempi, oppure coprire tematiche ad ampio raggio che rimarranno attuali e interessanti per anni. Inoltre, potendo vedere più facilmente, grazie ad Internet, cosa è già stato fatto su un certo tema o una certa storia, è possibile evitare di rifare inconsapevolmente qualcosa e, anzi, ci dà l’opportunità di puntare più in alto, cercando di approfondire in maniera unica e completa l’argomento in questione. Per fare qualcosa di irripetibile o quasi.

Molti appassionati di fotografia non immaginano quanto poco tempo un professionista passi a scattare fotografie, piuttosto che studiare, documentarsi, confrontare il lavoro degli altri, verificare, organizzare, fare lavori di scrivania. Lo confermi anche tu?
Lo confermo, purtroppo! Nel senso che la fase di scatto è quella in cui sento di più l’adrenalina, sia quando sto andando a incontri programmati con persone o eventi, sia quando devo improvvisare e sento che qualcosa sta per accadere attorno a me e devo essere pronto a catturarlo.
Per il lavoro “Made in Korea”, sulla Corea del Sud, ho trascorso quasi un anno a raccogliere materiale, notizie, informazioni, a guardare i lavori fotografici già svolti, a procurarmi contatti sul posto che potessero facilitarmi gli spostamenti e gli incontri con i giovani sudcoreani, fino a farmi un vero e proprio programma di quello che avrei fatto, giorno per giorno. Chiaramente parliamo di fotografia: programmare è essenziale, ma altrettanto è cogliere quelle situazioni che la realtà ti regala e che non potevi immaginare o prevedere. Alla fine “Made in Korea” è composto e bilanciato da fotografie cercate (fatte in determinati luoghi e situazioni legate al tema che stavo approfondendo) e da scatti “trovati” fortuitamente durante gli spostamenti o in situazioni che non avevo previsto.

Quello appena trascorso è stato un anno drammatico e particolare. Tu non sei stato con le mani in mano e hai prodotto ben 11 lavori sul Covid, andando ad analizzare in modo originale diverse tematiche, anche intime e personali. Puoi raccontarci come hai vissuto la pandemia e come sei riuscito a trovare le idee e a quale di questi progetti sei più legato?
La pandemia ha mandato all’aria tutti i miei piani per il 2020. Uno di questi era il progetto di un lungo viaggio in Cina per il quale avevo già trovato nei mesi precedenti sponsor, guide, autista, ecc. È stata una bella botta vederlo rimandato! A marzo, quando il Covid-19 ha iniziato a colpire duramente l’Italia, siamo finiti al centro dell’attenzione mondiale. Il nostro paese sembrava, in modo assurdo, l’unica nazione occidentale vittima del virus, all’epoca lessi diverse critiche al nostro paese, a livello sanitario e organizzativo, ma per me era prevedibile che il virus avrebbe colpito ovunque. Era soltanto questione di tempo. Ho quindi pensato a come potevo sfruttare la situazione: il mondo voleva notizie e fotografie dall’Italia e io potevo mostrare come stavamo vivendo la pandemia. I primi tre lavori realizzati, che ancora oggi sento particolarmente, hanno riguardato il mio lockdown da casa.

Il primo è focalizzato su come mio figlio di due anni, Ulisse, avesse reagito a quella situazione: il poter stare quasi tutto il tempo con i genitori, ma impossibilitato a uscire, il suo riscoprire la casa venendo meno il resto del suo mondo (l’asilo, i nonni, gli amici). Questo lavoro è uscito su The Washington Post e altri giornali. Il secondo lavoro è sui fattorini delle consegne a domicilio: ho ritratto e intervistato 40 rider sul cancello di casa mia, cioè il nuovo confine del mio mondo. L’idea è arrivata un sabato sera, quando ho ordinato la pizza e nell’attesa mi sono domandato come potesse apparire ai loro occhi questo mondo svuotato, con soltanto loro in circolazione e “costretti” a incontrare persone durante una pandemia, senza sapere magari se chi aveva effettuato l’ordine si trovava in quarantena. Questo progetto è uscito su The Guardian, Il Sole 24 Ore e altri giornali. Nel terzo lavoro ho emulato James Stewart nel film di Alfred Hitchcock “La finestra sul cortile”, cioè ho documentato dalla mia finestra le attività dei miei vicini, che in quel periodo stavano riscoprendo i propri balconi, il proprio giardino e altri spazi all’aperto solitamente trascurati. Questo progetto è uscito su The Cut New York Magazine e altri. In seguito ho documentato un Hotel Covid-19 nella mia città, Forlì; ho raccontato il lockdown dei teatri della regione Emilia Romagna e la riapertura degli stessi in giugno; ho raccontato le aree giochi dei bambini chiuse nei parchi; come circa 60 famiglie di 8 condomini vicini avessero reagito al lockdown, aiutandosi a vicenda e anche facendo amicizia; il nuovo modo di viaggiare in Italia e di percepire la libertà di spostarsi. Negli ultimi due mesi del 2020 ho iniziato un lungo lavoro di documentazione dei servizi dell’AUSL del mio territorio, in particolare documentando i reparti Covid-19 e le squadre USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), cioè squadre di giovani medici addetti al monitoraggio e all’assistenza domiciliare dei malati di Covid-19 e che valutano quali malati ricoverare e quali no. Questo mi ha permesso quindi di raccontare la pandemia dai loro occhi e come questa abbia violato anche quello spazio che consideriamo il nostro rifugio sicuro, la casa.

I tuoi progetti Korean Dream e Made in Korea hanno ottenuto un grande successo per la qualità, lo stile e la freschezza del racconto per immagini. Come sei riuscito a restituire uno sguardo scevro da pregiudizi, come hai lavorato sul posto e cosa ti sei portato a casa da queste esperienze?
Penso che l’aver pianificato a lungo questi progetti e l’essermi documentato minuziosamente sulle caratteristiche sociali dei due paesi che avrei voluto fotografare, mi abbia reso consapevole di cosa stavo per affrontare. Avevo ben chiaro che tipo di scatti stavo cercando e che tipo di contraddizioni e aspetti volevo mostrare. In Corea del Sud non avevo alcun tipo di limitazione e quindi ho potuto procedere come da programma: avevo organizzato diversi incontri, interviste, visite a università e altri luoghi che erano legati alla tematica che affrontavo. Alcune situazioni le ho trovate fortuitamente e questo è un aspetto che adoro della fotografia: la realtà può ostacolare i tuoi piani, ma può anche farti vivere circostanze non prevedibili che ti permettono di creare fotografie migliori di quelle che potevi immaginare. Di quel viaggio ricordo le persone incontrate, i momenti in cui si sono confidate con me e anche le pause nelle quali condividevamo pasti e confidenze. Sono finito in un noraebang, un palazzo adibito interamente a karaoke e in ristoranti che da solo non avrei mai trovato, ma ho anche visto coi miei occhi il problema delle pensioni insufficienti che costringe molti anziani a dormire in strada. Ho ascoltato le storie di italiani andati a vivere con entusiasmo in Corea del Sud che, una volta finiti dentro i meccanismi sociali del paese, hanno sofferto lo stesso stress e le stesse problematiche dei coetanei coreani, cose che restano invisibili quando si visita il paese da semplice turista.

In Corea del Nord, invece, la musica è stata ben diversa. La dittatura che governa il paese da 70 anni non consente una interazione spontanea dei giornalisti stranieri con la popolazione, ti obbliga a farti assistere da guide che in realtà sono controllori (io e la giornalista con cui sono andato avevamo 4 persone a seguirci nei nostri spostamenti quotidiani), non ti consente di comunicare col resto del mondo (non c’è l’Internet che conosciamo noi) e mette i microfoni nella stanza dove alloggi. Conscio di tutto questo, ho dovuto escogitare il modo per realizzare il mio progetto senza mettere a rischio il mio ritorno a casa. Da non dimenticare che ho visitato quel paese nel maggio 2017, quando le tensioni fra Trump e Kim Jong-un erano alle stelle e si parlava anche di un intervento militare.

Alla fine ho documentato quello che mi interessava, i giovani, fotografando i posti dove vengono formati – asili, scuole, università e altri luoghi previsti dal regime. I miei controllori erano orgogliosi di mostrarmi tutto questo e a volte mi trovavo nella situazione assurda di vederli più preoccupati che fotografassi cose che non mi interessavano (segni di degrado di Pyongyang o persone che secondo loro non tenevano un comportamento consono) invece degli invadenti segni della propaganda, ormai a loro invisibili essendovi immersi da sempre. Da quel viaggio ho portato a casa la consapevolezza di essere fortunato di essere nato e cresciuto in una democrazia. Certi mondi distopici non si trovano soltanto nei romanzi.

Qual è il riconoscimento che, più di altri, ti ha dato la necessaria grinta e la conferma di aver intrapreso la giusta strada?
Per una serie di circostanze, direi che il salto è avvenuto nel 2016, a Londra, alla cerimonia dei Sony World Photography Awards, dove era stato premiato il mio lavoro “Made in Korea”. Al di là della curiosa esperienza – una pomposa cerimonia stile “Notte degli Oscar” – è stato importante perché quel progetto in Corea del Sud rappresentava il lavoro più ambizioso per me, fino a quel momento, e quindi era un ulteriore test per capire se potevo fare un salto di qualità. Inoltre quel riconoscimento mi ha permesso di conoscere persone che poi hanno avuto un ruolo centrale nello sviluppo di altri progetti, come quello in Corea del Nord.

Fra le tue attività c’è anche l’insegnamento. Quali consigli daresti a chi vorrebbe iniziare a utilizzare la fotografia per documentare ciò che lo circonda?
Il requisito essenziale, oltre all’apertura mentale, è la determinazione. A volte mi capita di vedere professionisti, anche di altri settori, che sono agli inizi ma che hanno la predisposizione di chi “ce la farà”. Magari non so dire quanti anni occorreranno, ma so che riusciranno a raggiungere il loro scopo. Avendo io una formazione da informatico, materia che ti insegna ad affrontare problemi molto complessi smontandoli in sotto-problemi più semplici, forse sono stato avvantaggiato in questo approccio. Se, ad esempio, mi trovassi a dover scalare una montagna, pianificherei ogni dettaglio dell’impresa ovviamente ma, una volta iniziata, non ragionerei sul numero complessivo di passi necessari, ma ragionerei sul fatto che devo fare almeno un passo ogni giorno. C’è un detto latino che ricordo sempre: Nulla dies sine linea che significa “Nessun giorno senza una linea“.

Come vedi lo stato della fotografia in Italia? Cosa manca e cosa servirebbe?
La salute dei fotografi italiani di oggi mi sembra ottima. Ci sono tanti colleghi che stanno compiendo lavori straordinari, apprezzati in tutto il mondo. Sulla salute di tutto ciò che ruota attorno ai fotografi, invece, sono meno ottimista. Nell’anno di un evento epocale, come la pandemia di Covid-19, uno dei lavori più importanti è stato svolto da Fabio Bucciarelli grazie all’investimento di tempo e risorse che ha fatto su di lui il New York Times (non mi risultano casi analoghi in Italia), mentre il progetto più lungimirante italiano ritengo che sia la creazione dell’archivio previsto da “The COVID-19 Visual Project”, con diversi lavori fotografici assegnati, possibile grazie a una realtà consolidata come il Festival Cortona On The Move e una banca. Altre iniziative, alcune interessanti e di qualità, sono nate grazie all’impegno di collettivi di fotografi, realtà autofinanziate e iniziative personali dei singoli fotografi. Forse è un po’ poco? Personalmente ritengo che serva una maggiore considerazione del ruolo del fotografo e, di conseguenza, un maggior investimento di risorse. Questo può avvenire inserendo studi e corsi dedicati nei percorsi educativi e formativi, anche in relazione al ruolo importante che ricopre l’immagine nella comunicazione di oggi e nei Social. Chiaramente gli eventuali risultati si vedrebbero dopo parecchi anni.

Mirko Bonfanti