Il caso di Gisèle Pelicot / by Filippo Venturi

[immagine generata con intelligenza artificiale dal sottoscritto]

Il caso di Gisèle Pelicot

Negli ultimi tempi mi ha colpito molto il caso di Gisèle Pelicot; ne ho seguito gli sviluppi, fino al verdetto del tribunale di Avignone di giovedì 19 dicembre 2024.

L'ex marito, Dominique Pelicot, con cui è stata sposata per quasi 50 anni, è stato condannato a 20 anni di carcere per stupro aggravato. Per circa 10 anni l’ha drogata, somministrandole a sua insaputa un farmaco per renderla incosciente, per poi farla violentare da altri uomini. Secondo la polizia gli stupratori sarebbero almeno 83, gli identificati sono 54, di cui 1 deceduto e 2 rilasciati per insufficienza di prove, quindi 51 a processo.

Dominique Pelicot e una quindicina di imputati si erano dichiarati colpevoli, mentre gli altri avevano ammesso di aver avuto rapporti sessuali con Gisèle Pelicot, contestando però l’accusa di stupro, sostenendo che non fossero consapevoli che lei non avesse dato il suo consenso.

Gisèle Pelicot si è dimostrata una donna forte, che all’inizio della storia ha saputo affrontare con coraggio la terribile notizia ricevuta dalla polizia, cioè del ritrovamento di un archivio di video, chiamato “Abusi”, in cui il marito catalogava in modo ordinato gli stupri che lei subiva.

Gisèle Pelicot ha chiesto che il processo avvenisse a porta aperte - rinunciando alla propria privacy in cambio della nostra consapevolezza - affermando «Que la honte change de camp» (che la vergogna cambi campo), e che quindi non siano le vittime di violenza a doversi vergognare, ma chi la violenza la compie. Inoltre ha continuato a usare il cognome dell'ex marito, durante il processo, affinché i suoi figli e nipoti potessero essere fieri del cognome che portano; così che Pelicot non fosse solo ricordato come il cognome di uno stupratore.

Dominique Pelicot era stato meticoloso non solo nella gestione dell’archivio video, ma anche nella procedura che gli uomini che portava a casa dovevano adottare prima di stuprare sua moglie. Dovevano scaldarsi le mani su un termosifone, prima di entrare in camera da letto. Dovevano spogliarsi in cucina. Non dovevano puzzare di sigaretta o usare profumi, per non lasciare tracce. Se Gisèle si muoveva mentre era in corso uno stupro, Dominique ordinava all’uomo di uscire dalla stanza. Era molto attento a che tutto si svolgesse in sicurezza, ma non ha mai fatto indossare un preservativo. Nemmeno a uno stupratore che era siero-positivo.

Quando Gisèle Pelicot aveva cominciato a lamentare sintomi come la perdita di peso, la caduta dei capelli, le enormi lacune di memoria e le difficoltà a muovere un braccio, Dominique l’aveva portata dal medico, ma non aveva mai smesso di drogarla e di abusare di lei. Quando lei gli aveva detto di avere problemi ginecologici inspiegabili, lui l’ha accusata di tradimento.

Non bastasse questo - che sarebbe più che sufficiente per ritenerla una storia troppo esagerata, se non fosse che è vera - una delle parti più inquietanti riguarda gli uomini coinvolti. Hanno fra i 20 e i 70 anni e svolgono i lavori più disparati: infermiere, camionista, giornalista, vigile del fuoco, muratore e così via. Molti uomini vivevano a poca distanza da casa Pelicot, nel paese di Mazan, che conta appena 6.000 abitanti. Durante il processo sono stati descritti come padri meravigliosi, persone rispettabili e uomini tranquilli.

Questa storia esprime la pretesa maschile di un controllo totale sul corpo delle donne. Ma non solo.

C’è un ulteriore aspetto inquietante. Non mi è mai capitato di leggere che questi 51 uomini a processo avessero precedenti per stupro o reati analoghi. Però hanno stuprato con disinvoltura Gisèle Pelicot. Come è stato possibile?

Probabilmente l’avere il via libera dell’allora marito ha fatto sentire questi uomini legittimati nel compiere una violenza sessuale, non percependo più Gisèle Pelicot come una persona con cui empatizzare, svincolandosi dal dovere di interrogarsi sulla moralità delle loro azioni, percependo la donna solo come un corpo messo a disposizione, su cui riversare macabre fantasie, dominio fisico, sfoghi rabbiosi, frustrazioni e ogni altro sentimento e istinto fra i più reconditi.

Con questo non intendo sminuire quanto avvenuto o giustificare gli stupratori. Tutt’altro. Trovo estremamente preoccupante scoprire quanto una persona, anche la più equilibrata, possa ritrovarsi a compiere le azioni più disgustose e violente verso un proprio simile, se autorizzato da qualcuno.

Il caso di Gisèle Pelicot richiama inevitabilmente un'altra donna e un altro processo. Hannah Arendt, autrice de La banalità del male, analizzò il processo a Adolf Eichmann e la sua percezione del male come qualcosa di ordinario, che può essere perpetrato da persone comuni, quando si trovano a seguire ordini o si sentono autorizzate a farlo.

Il caso di Gisèle Pelicot ribadisce la pericolosità dell'abdicare alla responsabilità personale. Quando una struttura sociale, una figura di autorità o un contesto culturale legittimano il male, ridefinendo le regole sociali, è più facile che le persone vi partecipino, percependolo come "normale" o comunque non condannabile. Sta a ciascuno di noi, come individui e come società, interrogarci continuamente sul valore delle nostre azioni, che abbiano o meno conseguenze dirette su di noi.