Journey

The Ghost Hunt of York by Filippo Venturi

York è rinomata per essere la città più infestata d'Europa e le sue affascinanti stradine medievali non fanno che amplificare questa atmosfera. Passeggiando tra questi antichi vicoli, ci si può imbattere in negozi unici, come The York Ghost Merchants, che catturano perfettamente l'essenza spettrale della città.

Qui si trova anche The Shambles (l'antica strada dei macellai), con i suoi edifici a graticcio che si sporgono sopra la testa dei passanti. Questa strada, che ha ispirato la famosa Diagon Alley di Harry Potter, è tanto incantevole quanto affollata. Ma se si ha la pazienza di attendere le 21, quando si svuota, sarà possibile godersela in solitudine, avvolti nel silenzio della notte.

Tra le esperienze che desideravo vivere c'era quella di seguire una delle note visite guidate, a tema fantasmi, che si svolgono dal tramonto in poi. Ho scelto "The Ghost Hunt of York", e all'ora stabilita mi sono ritrovato con una quarantina di altri partecipanti nei pressi del punto di ritrovo.

Qui, un uomo alto e magro, vestito di nero dalla testa ai piedi, cilindro compreso, è apparso con passo deciso e sguardo penetrante. Senza dire una parola, solo con un cenno, ci ha invitati a seguirlo e così è iniziata una narrazione suggestiva e, a tratti, esilarante di storie e leggende della città.

L'alternanza tra teatrali invocazioni ai fantasmi, effetti artigianali un po' kitsch, gag comiche e scenette ironiche con volontari presi dal pubblico ha fatto volare i novanta minuti della visita. Alla fine, ho avuto il tempo per un ritratto posato del misterioso uomo in nero, prima che svanisse nei vicoli bui da cui era emerso.


York is renowned for being the most haunted city in Europe and its charming medieval streets only amplify this atmosphere. Strolling through these ancient alleys, one can come across unique shops, such as The York Ghost Merchants, that perfectly capture the spooky essence of the city.

Here you will also find The Shambles (the old butchers' street), with its half-timbered buildings jutting above the heads of passers-by. This street, which inspired Harry Potter's famous Diagon Alley, is as charming as it is crowded. But if you have the patience to wait until 9pm, when it empties out, you can enjoy it in solitude, enveloped in the silence of the night.

Among the experiences I wanted to have was to follow one of the well-known ghost-themed guided tours that take place from dusk onwards. I chose 'The Ghost Hunt of York', and at the appointed time I found myself with about forty other participants near the meeting point.

Here, a tall, thin man, dressed in black from head to toe, including top hat, appeared with a determined step and a piercing gaze. Without saying a word, just nodding, he invited us to follow him and thus began an evocative and, at times, hilarious narration of stories and legends of the city.

The alternation of theatrical invocations to ghosts, slightly kitschy handicraft effects, comic gags and humorous skits with volunteers from the audience made the ninety-minute visit fly by. At the end, I had time for a posed portrait of the mysterious man in black, before he vanished into the dark alleys from which he had emerged.

Diario nord coreano by Filippo Venturi

Diario nord coreano
(2017)

Una versione di questo testo, ridotta a circa 11 mila battute, è uscita qualche anno fa nella rivista Il Reportage. Questa è invece la versione integrale di circa 27 mila battute. Non si tratta di un diario esauriente di quel viaggio, ma è l’insieme di alcune note e alcune vicende che ho registrato mentalmente. Con me avevo anche un quaderno che ho usato per annotarmi alcune informazioni innocue, ma nel quale non sarebbe stato saggio scrivere pensieri che sarebbero potuti essere letti dalle autorità nord coreane e causarmi complicazioni prima del rientro in Italia.

È un pomeriggio di marzo quando ricevo l'attesa notizia che le autorità nord-coreane hanno approvato il progetto che intendo realizzare nel loro paese. Mi era stato richiesto di preparare una minuziosa relazione, che è stata da loro letta, vagliata e giudicata. Ora posso finalmente dedicarmi ai preparativi del viaggio.

Realizzare un lavoro in Corea del Nord è il mio pallino fisso da quasi due anni, da quando cioè ho svolto quello sulla Corea del Sud. A fotografi e giornalisti non è consentito entrare nel paese col visto turistico: chi lo ha fatto, mentendo, ha corso un grosso rischio, e gli è toccato accontentarsi del tour guidato decretato per i turisti. Per questo ho cercato, per mesi, un contatto che mi aiutasse nei rapporti con le autorità e, garantendo per me, mi facesse ottenere l’agognato visto da giornalista. Per sostenere le spese che affronterò nel visitare il paese, ho coinvolto la rivista Vanity Fair e con me partirà anche una loro giornalista, Imma Vitelli.

È a questo punto che il mio contatto inizia a recitarci, quasi quotidianamente, per telefono ed email, il mantra delle regole non scritte che dovremo rispettare per poter svolgere il nostro lavoro e tornare a casa senza intoppi: in quanto inviati di un giornale saremo considerati sorvegliati speciali. Io e Imma saremo aiutati durante il nostro soggiorno da quattro guide – si potrebbe (anche) dire "scortati da quattro controllori" – ossia un autista, un fotografo incaricato di controllarmi, censurarmi e persino di fotografarmi per documentare ai suoi superiori le mie attività, una guida che parla italiano e un'altra che parla inglese e spagnolo. Non potremo uscire dall'albergo senza di loro; verranno a prenderci ogni mattina e ci riporteranno alla sera, accompagnandoci nei luoghi che abbiamo indicato nella relazione e deliziandoci con proposte integrative: è loro cura assicurarsi che non ci sfugga che magnifico paese sia la Corea del Nord.

In hotel ci saranno telecamere ovunque. Saranno sicuramente negli spazi comuni e negli ascensori ma dovremo essere prudenti anche all'interno delle nostre camere, dove ci ascolteranno dei microfoni. Dovremo assolutamente evitare di parlare del Supremo Leader e soprattutto di farci ironia o di criticarlo. Meglio parlare poco e in modo chiaro per evitare equivoci: i coreani vedono ogni occidentale come una possibile spia.

Dovremo dimostrare costantemente il nostro rispetto verso i Leader, partendo dal primo giorno, quando dovremo donare spontaneamente un mazzo di fiori al monumento dei Leader Kim Il Sung e Kim Jong-il – rispettivamente nonno e padre dell'attuale Leader Kim Jong-un. La procedura è ben definita: prima appoggeremo le nostre borse a terra, poi ci inchineremo a 90 gradi esatti. Non dovremo rialzarci per almeno cinque secondi, mantenendo uno sguardo solenne.

La partenza è prevista in maggio, da Roma. Prenderemo un volo per Pechino, poi uno per Yantai e infine per Dandong – città cinese al confine con la Corea del Nord – per un totale di circa venti ore tra voli e attese. A Dandong passeremo due notti e una giornata intera, esplorando il confine dal lato cinese, lungo il fiume Yalu, per poi prendere nel secondo giorno il treno, al mattino presto, che in sei ore raggiungerà Pyongyang attraversando le campagne coreane.

Il treno che ci porta a Pyongyang, appena varcato il confine, viene fatto fermare in territorio coreano, dove decine di soldati salgono a bordo, entrando in ogni scompartimento per perquisire e interrogare i viaggiatori. A bordo siamo rari esemplari di occidentali e attiriamo sguardi e curiosità. Dividiamo lo scompartimento con un ragazzo cinese e una coppia di mezza età composta da un cinese e una coreana. Quando un soldato arriva nel nostro scompartimento, ci invita a uscire in corridoio per poi chiamarci dentro uno alla volta per controllare il contenuto dei badagli e procedere con l'interrogatorio. Il contatto ci aveva preparato anche a questo.

Arriva il mio turno. Devo compilare un questionario dove dichiaro che sono un fotografo e cosa intendo fare in Corea del Nord. Elenco il materiale in mio possesso, in particolare l'attrezzatura fotografica: 3 fotocamere, 4 obiettivi, 1 cavalletto, 1 smartphone e una infinità di batterie e memorie in grado di garantirmi autosufficienza per le due settimane di viaggio: temendo i blackout elettrici, frequenti in, ho voluto essere previdente. Su consiglio, non ho preso con me il computer portatile che avrebbe reso ancora più complessi i controlli e aumentato la perdita di tempo. Nel questionario mi viene chiesto se ho con me la Bibbia, pongo il segno su No. Mentre sono indaffarato ad aprire ogni cerniera e ogni tasca dei miei bagagli per mostrarne il contenuto, il militare mi interrompe chiedendomi in un inglese minimale «No Bibbia?», «No». Sto riordinando le mie cose nelle rispettive tasche, quando mi domanda «Tre fotocamere?», «Sì». «No Bibbia?», «No». «Quattro fotocamere?», «No, tre». «No Bibbia?», «No». «Quanti cavalletti?», «Uno», lo tocca, «È questo?», «Sì». Rispondo sempre guardando negli occhi il militare. La cosa va avanti per un po': l'interrogatorio verte sul ripetere le domande con frequenza e vedere se cambio risposta, cadendo in contraddizione. Dal momento che non sto mentendo, risulta semplice restare coerente. Mi domando se vorrà vedere le fotografie che ho scattato, quelle fatte da Dandong verso la costa coreana, saranno un problema. Poi mi ricordo di altri scatti fatti in stazione, dove i pochi viaggiatori coreani si riconoscono dai cinesi per i vestiti e le borse di bassa qualità. Più che borse sono scatole di cartone e sacchi insolitamente grandi avvolti nelle plastiche, probabilmente non contengono oggetti personali, ma prodotti destinati al mercato nero che ha preso piede recentemente in Corea e che è tollerato dal Governo. Il militare conclude la sua ispezione e passa oltre.

Quando il treno riparte, il clima è più disteso in tutto lo scompartimento. Il ragazzo cinese si apre, raccontandoci di essere un imprenditore: si occupa di abbigliamento. La produzione però viene affidata a lavoratori nord-coreani perché guadagnano ancora meno dei cinesi e quindi per lui rappresentano un risparmio sulla manodopera.

Mi aspettavo dei controlli costanti durante il viaggio in treno, invece sono libero di raccogliere materiale fotografico e video delle campagne, delle risaie, delle piantagioni di soia che ricoprono il paesaggio fino all'orizzonte, dei villaggi quasi medievali e dei rari coreani che guardano il treno passare, seduti ai lati della ferrovia o mentre camminano lungo strade spesso non asfaltate. Il tempo grigio e piovoso, gli edifici fatiscenti e gli sporadici gruppi di persone coperti da impermeabili e ombrelli colorati, coordinati da pochi militari, privano dell'innocenza il paesaggio di campagna. Di tanto in tanto qualche coreano si gira e sorride al treno, qualcuno sembra notare proprio me.

La stazione di Pyongyang è essenziale e sovradimensionata per le persone che contiene; scoprirò in seguito che è caratteristica comune a tutti i luoghi che visiterò. Le guide ci accolgono con sorrisi e con fare garbato; non dubito che possano essere brave persone con la sfortuna di crescere in uno dei paesi meno liberi al mondo. Al tempo stesso ricordo le parole del contatto: «Probabilmente si creerà un rapporto socievole e prenderemo confidenza, ma non dovrete mai abbassare la guardia ed esporvi, pensando di essere fra amici».

Viaggiamo stipati in un antico furgoncino giapponese; se su altri aspetti hanno una cura maniacale nell'esibire ordine e sfarzo, sui mezzi di trasporto vanno al risparmio. La prima tappa è il Yanggakdo Hotel: un albergo di 46 piani, spesso utilizzato per ospitare turisti e giornalisti, il cui nome significa “Corna di pecora” per via della forma dell’isola su cui è costruito. Vista l'ubicazione, qualche visitatore lo ha soprannominato Alcatraz.

Facciamo il check-in, lasciamo i bagagli, una rinfrescata in bagno, poi scendiamo di nuovo nella hall dove ci attendono le guide per portarci a cena. Il sole è ormai tramontato e noi sfrecciamo nel buio delle strade – l'elettricità è preziosa qui –, asfaltate ma corrose. L'autista guida sicuro, si alterna fra le quattro corsie di continuo, facendo lo slalom fra le buche. Non c'è traffico – e non lo troveremo mai –, in compenso le strade brulicano di pedoni intenti ad attraversare. Qui la precedenza è sempre data ai veicoli a motore e i semafori sono rari, una scelta forse dettata dalla volontà di risparmiare carburante, un bene pregiato vista la difficoltà nel reperire petrolio e derivati con l'embargo internazionale che vige da oltre 10 anni (le sanzioni furono imposte nel 2006 da USA, ONU e UE dopo il primo test nucleare). In queste prime ore socializziamo soprattutto con le guide Kim (che parla italiano) e Choe (inglese e spagnolo). Sebbene l'italiano di Kim sia sgangherato, ci chiede di parlarlo così da consentirgli di allenarsi; Kim è una guida importante per la KITC, l'agenzia turistica governativa, perché in tutto il paese soltanto 15 persone hanno studiato e parlano italiano. «Kim, a cosa servono le strisce pedonali se non facciamo mai passare i pedoni?» «Quando ci sono le strisce le automobili rallentano, ma non si fermano».

Ceniamo in una struttura che, al piano terra, è adibita a negozio di abbigliamento e al primo piano è occupata da un ristorante; scopriremo che in Corea è una cosa frequente. Il ristorante è pulito e curato ma l'abbondanza di colori, stili e ornamenti lo rende kitsch. Quattro cameriere si prendono cura del nostro tavolo da sei, considerando che il resto del locale è vuoto (circostanza che si ripeterà spesso durante il viaggio). Il clima è disteso, iniziamo a fare conoscenza, il cibo è buono e si basa su riso, frittata, kimchi (cavolo fermentato) e altre verdure. Di tanto in tanto l'occhio mi cade su una parete del ristorante ricoperta da una proiezione di orchestre e marce militari che celebrano la grandezza del paese.

Kim ci racconta che gli Stati Uniti minacciano sempre il suo paese, ma loro adesso hanno tutto per poter rispondere alla guerra, alludendo alla bomba atomica. Sembra un bambino contento dei propri giocattoli. Sottolineerà spesso, durante il nostro soggiorno, che «Quando gli Stati Uniti pungiano, noi pungiamo più forte». Aggiunge poi che negli anni '50 gli USA hanno lanciato 300.000 bombe su Pyongyang, praticamente una bomba per ciascun abitante della città di quel periodo. Le tensioni fra Stati Uniti e Corea del Nord sono aumentate con la presidenza di Trump che, dopo ogni test missilistico coreano, usa sempre più spesso l'espressione "ogni opzione è sul tavolo", accarezzando quasi con piacere il termine "guerra".

In seguito scoprirò che tutti i pasti sono pianificati scrupolosamente: a volte ceneremo con le guide, altre volte io e la giornalista verremo lasciati da soli, mentre loro consumeranno il proprio pasto in una stanza adiacente. Forse per una genuina cortesia di lasciarci un po' di privacy o forse per registrare le nostre conversazioni quando penseremo di essere soli.

Kim, oltre all'italiano, ha studiato anche la storia del nostro paese, antichi romani compresi. Imma, per stuzzicarlo, gli domanda se sa chi era Giulio Cesare, «Sì», se sa che è stato un dittatore, «Sì» proprio come il tuo Leader, «No!». Si ribella all'accostamento perché in Corea si vota ogni 4 anni e Kim Jong-un è stato eletto con il 100% di voti. «Kim, è normale secondo te?», «Sì». «Se ci fosse un nord-coreano che non apprezzasse il Leader, cosa gli succederebbe?». Kim ci pensa un po'... «Chi è?». Non comprende che si tratta di un’ipotesi e si aspetta che gli venga rivelato il nome.

Il cellulare in Corea non funziona; non c'è campo e non c'è internet. Nel periodo che trascorreremo in Corea saremo completamente isolati dal mondo, con l'unica possibilità di mandare email dalla casella dell'albergo oppure chiamare da uno dei telefoni nella hall dell'albergo al costo di 2,50 euro al minuto, con la certezza di essere letti e ascoltati. Chiamo casa, ho promesso a Elisa, la mia compagna, che mi farò vivo ogni 24 ore circa; entrambi sappiamo che non siamo soli al telefono e quindi ci limitiamo a discorsi semplici dove confermo che va tutto bene, racconto della gentilezza delle guide e dei posti visti quel giorno. Lei vorrebbe darmi una notizia importante, ma è troppo personale per comunicarmela in quelle circostanze e troppo importante per non rischiare di distrarmi dal lavoro che dovrò svolgere. Non la menziona.

La stanza d'albergo, elegante e involontariamente vintage, con moquette e arredamento beige, è grande e pulita; si trova al 43° piano e da lì ho una bella vista sulla città che appare moderna e ricca, se fossimo negli anni '70; guardando meglio, i grattacieli color pastello sono sbiaditi e corrosi dalle intemperie. Nei corridoi che portano dall'ascensore alla stanza ho notato che la vista sugli altri lati mette in mostra cantieri o edifici da restaurare (come la logora sede della Biennale del Cinema).

Incuriosito dalla possibilità di essere sorvegliato anche in camera, mi guardo attorno alla ricerca di eventuali cavi o microfoni, che non scorgo. L'unico elemento sospetto è il comodino dalla forma cubica, senza cassetti, ma con tasti e manopole da radio sul lato anteriore. Guardando il lato posteriore del comodino, noto un numero eccessivo di cavi che si infila nel muro. Imma ed io, consci di non poter parlare liberamente, limiteremo le conversazioni in albergo a discorsi banali. Ci scambieremo a volte comunicazioni delicate scrivendole soltanto sul display del cellulare per poi cancellarle immediatamente.

Nel mio secondo giorno a Pyongyang, scendo al piano terra dell’albergo alle 7.30. Io e la collega non abbiamo pensato a darci un appuntamento per fare colazione e mi ritrovo da solo nel salone dove viene servita. Vengo fatto sedere in un tavolino distante dagli altri ospiti, una mezza dozzina in tutto. Yogurt, verdure tritate, caffè e frittata vengono servite in piattini da cameriere carine nei modi ma rigide nei gesti. Mi capiterà di vedere qualche occidentale nel momento della colazione, ma verremo sempre fatti sedere lontani e non ci sarà mai la volontà di cercarsi.

La seconda volta che scendo al piano terra, dopo un passaggio in camera per prendere con me la borsa fotografica, scorgo le nostre guide; hanno dei sorrisi insolitamente larghi, come se si fossero appena raccontati qualcosa di esilarante. Mentre mi vengono incontro il sorriso non accenna a diminuire. «Hai visto il canale internazionale in camera? – domanda Kim – abbiamo fatto un test missilistico, è andato bene!» racconta entusiasta. Mi complimento conciliante con loro, ma il mio pensiero va alla TV che avevo ignorato; scoprirò nelle notti seguenti che riceve Al Jazeera, che sarà il mio unico canale di informazione durante la permanenza. Per il resto della giornata mi domanderò se sia una notizia vera oppure una sorta di test per vedere la nostra reazione oppure una notizia diffusa solo in Corea. Soltanto alla sera Elisa mi confermerà al telefono, con una certa apprensione, che anche in Italia si è parlato di questo test.

Ci accorgeremo, col passare dei giorni, che le nostre guide hanno soltanto informazioni parziali sull'attualità: non sanno ad esempio che in Corea del Sud è appena stato eletto un nuovo Premier, Moon Jae-in o che in febbraio è stato assassinato, a Kuala Lampur, Kim Jong-nam, fratellastro del loro Leader. Prenderemo l'abitudine di chiedere ogni mattina a Kim qual è la notizia del giorno in Corea del Nord. Lui ci risponderà puntualmente consultando il proprio smartphone, con cui ha accesso ad un internet limitato a pochi siti governativi come quello del quotidiano "Rodong" (lavoro), dove può leggere le informazioni filtrate dalla propaganda.  Ne è conscio, ma lo considera un bene, perché «sono le informazioni giuste per la popolazione».

Il giorno seguente ci racconterà i dettagli del test missilistico riuscito, poi della festa organizzata dal Leader per l'esperimento andato a buon fine, successivamente del regalo offerto dal Leader agli scienziati che hanno reso possibile tutto questo e il giorno dopo ancora dei complimenti ricevuti dagli altri Leader asiatici. «Kim, non ci sono mai brutte notizie in Corea?», «A volte, ma provengono dall'estero».

Durante il nostro soggiorno visiteremo il Complesso della Scienza e Tecnologia, il Palazzo dei Bambini, scuole superiori, asili, biblioteche, parchi giochi e altri luoghi dove vengono formati i giovani nord-coreani, tema portante del mio progetto. I coreani sono orgogliosi di mostrarci la loro gioventù, dove persino bambini di pochi anni hanno una disciplina ferrea e una dedizione totale verso l'attività che svolgono, al punto da sembrare piccoli robot. Sono capaci di festeggiarci, mostrarci le aule e i loro strumenti e giochi e di intrattenerci con concerti impeccabili che, per durata e precisione di esecuzione, sembrano impossibili per la loro età.

Non ci faranno visitare nemmeno una delle trenta università presenti in città, nonostante fosse fra le nostre richieste. Ci porteranno a vedere i set cinematografici, meta che consideravamo molto importante visto il ruolo che il cinema ricopre nella propaganda, ma lo faranno in una giornata dove non c'è nessuno da intervistare e fotografare; soltanto set vuoti. Delusione profonda. Compro e sfoglio una guida al cinema nord-coreano in inglese, in un negozio di souvenir, leggo un po' di trame. Quando non si tratta di film ispirati alla vita di Kim Il-sung o di veri e propri film di guerra dove si combattono gli USA, i film raccontano storie di ordinaria quotidianità, dove magari un giovane scapestrato commette una serie di errori o mancanze di rispetto verso la famiglia, fino al giorno della maturazione, espressa simbolicamente con l'arruolamento nell'esercito per combattere gli americani.

Un giorno, mentre camminiamo per le vie di Pyongyang, mi accorgo che Kim e Choe chiacchierando rispettivamente con me e la collega, tenendo andature diverse, riescono a distanziarci di una decina di metri, ritenendoli sufficienti per avere dialoghi separati, ma in realtà posso comunque sentire a fatica le domande che Kim pone e le risposte che la giornalista fornisce: «Che tipo di rivista è Vanity Fair?», «Di cosa si occupa?», «è americana?», «Davvero la redazione italiana è indipendente da quella americana?»  e così via. Pochi minuti dopo le stesse domande vengono poste a me da Choe. Rispondo allo stesso modo, che è poi la verità, e la mia versione coincide con quella della giornalista. Le nostre guide ci chiedono quasi quotidianamente che tipo di articolo sarà il nostro; ci tengono molto che venga fuori una visione positiva perché la priorità del loro paese è incrementare il turismo (e l'arrivo di valuta straniera; ogni nostra tappa è seguita dalla visita a un negozio di souvenir dove sperano di farci comprare qualcosa).

Altrettanto spesso ci raccontano del loro sogno di riunificazione pacifica della penisola coreana in un unico paese guidato dal Leader Kim Jong-un. È un desiderio sincero e molto sentito, che mi fa tornare alla mente le interviste che feci ai giovani sud-coreani nel 2015. Nessuno di loro voleva la riunificazione perché non intendono rinunciare al benessere raggiunto e nemmeno vogliono che la crescita economica e tecnologica del paese venga rallentata dal farsi carico dei nord-coreani. Alcuni studi hanno stimato che la produttività del Nord raggiungerebbe un livello pari alla metà di quella del Sud solo dopo circa cinquant’anni.

Nei nostri spostamenti notiamo una moltitudine di militari che incontriamo a presidio dei monumenti, in giro per le strade o anche al lavoro nei cantieri. «Perché i militari svolgono lavori da operai, muratori e contadini?», chiedo, «Costruiscono il socialismo», sentenzia Kim. Aggiunge poi che il servizio militare, della durata da tre a cinque anni, è obbligatorio e che nelle università insegnano a tutti a sparare. Saperlo fare è un dovere dei coreani. Sono esentati i ragazzi che studiano lingue, tecnologia e musica. Per le donne non è obbligatorio ma, per chi scegliesse di farlo, la durata va dai diciotto ai trentasei mesi a seconda del settore scelto. Alcune fonti riportano che l’esercito nord-coreano è la quinta forza armata al mondo dopo Cina, USA, Russia e India. Se si tiene conto dei riservisti, l’esercito può arrivare a oltre sette milioni di militari su una popolazione complessiva di venticinque milioni.

Kim, studiando italiano, è stato esentato dal servizio militare: ho idea che non ci tenga a farlo anche se ce la racconta come una possibilità che sta valutando. Gli abitanti di Pyongyang sono una élite rispetto al resto del paese e all'interno della città c'è una casta ancor più ristretta che include poche migliaia di persone, fra le quali il nostro Kim, figlio di un avvocato e col desiderio di diventare funzionario di partito. Fotografare i militari è severamente vietato, penso che c'entri col fatto che svolgono lavori umili, ma mi adeguo senza problemi, non rientrando loro nel mio progetto. Non intendo provocare il fotografo che mi scorta, quasi sempre sorridente e cordiale, tranne in alcuni episodi: mi ha impedito di fotografare dei giovani che non avevano un portamento adatto alla buona immagine del Paese. Allontanandoli con decisione dal sottoscritto, li ha ammoniti con severità.

Durante il viaggio spiccano tre incontri in particolare: quello avvenuto a casa di un professore universitario, quello avvenuto con un Colonnello alla DMZ (zona demilitarizzata, il confine con la Corea del Sud) e quello avvenuto con un funzionario del partito nel bar del piano terra del Koryo Hotel.

Abbiamo aspettative molto alte dalla visita alla casa del Professore Ri Sungil, Presidente dell’Università di Ingegneria Elettronica. Il professore è uno dei ruoli più importanti nella società nord-coreana – persino più di giudici, avvocati e membri del Partito –, perché dovrà forgiare le menti di scienziati e ingegneri che lavoreranno allo sviluppo tecnologico e militare del paese.

Quando arriviamo nell'appartamento, situato in uno dei grattacieli del quartiere degli scienziati, scopriamo che il professore è al lavoro e non può incontrarci, ma possiamo parlare con la moglie e fotografarla. L’ennesimo bastone fra le ruote. Ci viene raccontato che la casa, di 200mq, è un regalo del Supremo Leader. Anche i mobili, i bicchieri e tutto il resto sono regali. Gli oggetti della vecchia casa sono rimasti là, non c’è stato alcun trasloco dato che appartiene tutto allo Stato. Nella vecchia casa non avevano il boiler per l'acqua calda. Le famiglie dei professori hanno dei benefit, come il saltare la fila quando fanno la spesa, ricevere annualmente un pacco di cibo e confezioni di acqua di sorgente, oltre alla possibilità di fare una vacanza di tre settimane al lago.

Alla DMZ incontriamo il Colonnello Jon, che ci racconta il suo punto di vista sulla Guerra di Corea e la divisione del Paese. Kim lo ascolta con estremo rispetto. Ricordo la visita fatta alla DMZ dal versante sud-coreano, ma qui a nord l'atmosfera è più pesante e surreale per via degli altoparlanti sud-coreani che trasmettono musica e a volte discorsi provocatori contro gli ideali dei nord-coreani. Chiediamo informazioni ad alcuni militari ma tutti affermano di non sentire bene e di non capire cosa viene detto (è difficile crederlo, più probabilmente non vogliono ripetere quelle frasi).

La mattina del penultimo giorno in Corea, nella hall del nostro albergo, avviene un incontro fortunato con un funzionario importante del partito che, informato da Kim della presenza di due giornalisti di Vanity Fair in visita nel paese, viene a presentarsi. Non ha molto tempo, ci dà appuntamento per la sera stessa nel lussuoso Koryo Hotel (dove alloggiano solitamente i pezzi grossi del Paese) dove ci concederà un’intervista. È una grande opportunità. Quando arriviamo al suo tavolo notiamo che è vestito elegante, parla inglese in modo spavaldo ed è brillante (come un attore consumato) con Imma, che è al centro delle sue attenzioni. È un nord-coreano diverso da tutti quelli incontrati nel viaggio perché ha libero accesso all'informazione, a internet, ha potuto viaggiare all'estero, persino in Italia, sa come va il mondo ed è consapevole del filtro che viene imposto alla popolazione.

I successivi trenta minuti, però, sono un corteggiamento insistente verso la giornalista, che mi fanno pensare all'ennesima delusione delle nostre aspettative. La collega però è esperta e sa quando dare corda e quando riportare la conversazione sui binari. Spinge il funzionario a iniziare l'intervista e, quando questo capisce che non può più rimandare, fa chiamare Kim per tradurre perché, da quel momento in poi, parlerà prudentemente soltanto coreano. Nell'ora successiva Kim si troverà a tradurre domande e risposte che contengono informazioni e notizie di cui era completamente all'oscuro: gli si aprirà un mondo. Quando a un certo punto gli altri vanno al bagno e rimane solo con me al tavolo, mi domanda con agitazione se sta traducendo bene, vuole ben figurare col funzionario perché sogna di diventarlo anche lui, in futuro. Taglio corto e lo rassicuro con generosità.

Fra le altre numerose mete del viaggio: la Metropolitana di Pyongyang – imponente e ricca di decori, pensata anche per essere un rifugio per la popolazione in caso di attacco nucleare –, l'Arco di Trionfo – 11 metri più alto di quello di Parigi, ci tengono a precisare –, il Monumento alla Fondazione del Partito, la Juche Tower, la Grand People's Study House, il Museo della Guerra e l'International Friendship Exibition, cioè un museo imponente di 70.000 mq che contiene gli 114.920 regali provenienti da 188 Paesi, in onore dei Leader nord-coreani; fra questi anche un’auto blindata e un vagone ferroviario blindato donati da Stalin.

Nel giorno della partenza, c'è la classica malinconia di chi sta per salutare degli amici; dopo il tempo passato assieme, è stato naturale sviluppare una simpatia, in particolare verso Choe e Kim, che a volte hanno ostacolato il nostro lavoro, obbedendo a ordini superiori, ma altre volte si sono dimostrati disponibili e si sono aperti con noi. Se ripenso a Kim e ai suoi 26 anni, sono convinto di averlo conosciuto nel momento migliore della sua vita – dal mio punto di vista – con un animo ancora aperto, nonostante tutto. Fra 10 o 20 anni alloggerà anche lui al Koryo Hotel, spavaldo e complice consapevole della propaganda.

È al momento dei controlli in aeroporto che si scopre se le autorità nord-coreane hanno deciso che puoi lasciare il paese o meno e, proprio per questo, siamo un po' ansiosi nonostante ci sembri di aver trovato il giusto equilibrio fra il sottostare alla loro volontà e lo svolgere il nostro lavoro. Mentre mi controllano le borse, un militare mi domanda la provenienza di due poster di propaganda coreana che ho nella tasca esterna dello zaino. Gli spiego che li ho comprati a Kaesong, città vicino al confine. Lui mi chiede lo scontrino, che non possiedo, probabilmente non mi è stato nemmeno lasciato. Per un attimo la mia mente estrae dal cilindro il nome Otto Warmbier, lo studente americano qui arrestato oltre un anno fa per il furto di un poster e che avrà un destino crudele nei mesi successivi. Il militare insiste nel chiedermi lo scontrino, gli rispondo che non ce l'ho. Osservo Imma andare oltre i controlli e sto pensando di avvisarla del mio fermo, quando il militare decide di lasciarmi andare…

Seguono alcune fotografie scattate durante il viaggio in treno da Dandong a Pyongyang.